Muccino: “Resto in America perché qui il cinema si fa per il pubblico”

Il regista di “Quel che so dell’amore”: in Italia “commerciale” è una parolaccia, da loro è una sfida

No, Gabriele Muccino non è pronto a tornare: «L’Italia è li, nel mio cuore. Però lavorare in America è una sfida. E’ difficile, è il tentativo di spingermi a fare di più. E’ la competizione, che mette pressione sugli artisti e li aiuta a crescere. E’ la possibilità di realizzare le cose in grande, misurandosi con altri talenti. E’ avere successo di pubblico, e quindi anche girare film commerciali, che qui non sono una parolaccia. Mi fa infuriare, quando sento registi, sceneggiatori, attori italiani, che dicono di non voler partecipare ad operazioni commerciali. Cosa significa? I film che dopo due settimane escono dal mercato producono solo la bancarotta, e senza soldi non si possono girare belle storie». 

Non è pronto a tornare indietro, e non si capisce perché dovrebbe farlo. Lo incontriamo in un grande albergo di Beverly Hills, dove il regista de L’Ultimo bacio è venuto a presentare il suo nuovo film prodotto ad Hollywood, Playing for Keeps, che uscirà in Italia il 10 gennaio col titolo Quello che so dell’amore. E’ la storia dell’ex grande campione di calcio britannico George Dryer, interpretato da Gerard Butler, che una volta spenti i riflettori degli stadi butta via la propria vita. Perde la moglie Stacie, una Jessica Biel in versione ragazza acqua e sapone della Virginia, e soprattutto il figlio di nove anni Lewis, il bravo Noah Lomax, che insieme lo adora e lo odia, per tutte le volte che lo ha deluso e abbandonato. George però decide di recuperare le cose importanti della sua vita, o almeno ci prova. Così si trasferisce in Virginia e finisce per allenare la squadra di calcio del figlio, sotto l’assedio delle seducenti “soccer mom” degli altri bambini nel team, tipo Catherine Zeta-Jones e Uma Thurman, impegnate a fare tutto il possibile per deragliare la sua redenzione. 

«La ragione fondamentale che mi ha spinto a fare questo film - spiega Muccino - è il rapporto tra padre e figlio, il complicato viaggio che George cerca di riprendere con Lewis. George è un vero disastro, e questo lo rende simpatico. Però non sarebbe stato possibile apprezzare la sua evoluzione, senza metterlo nel contesto di questo ambiente della provincia americana». 

Forse lei ha fatto il primo film dedicato alle “soccer mom”, le madri suburbane che portano i figli a giocare a pallone. Lo sa che sono una categoria fondamentale anche per i politici che puntano alla Casa Bianca?  
«Io ci ho visto soprattutto questa America profonda e annoiata, dove esiste solo il centro commerciale e la bisteccheria, in cui si tradisce per avere la sensazione di essere ancora vivi. L’individualismo, la pressione del lavoro in cui devi cavartela da solo, sono gli elementi che hanno fatto grande questo paese, ma lo hanno reso anche parecchio nevrotico». 

Perché allora non ha voglia di tornare in Italia?  
«Se lo facessi, cercherei di portare la noi le cose che ho imparato qui. Soprattutto la capacità di allargare gli orizzonti dei nostri film». 

Cosa ci manca?  
«Per me fare un film in Italia è facile, ma non rappresenta una sfida come realizzarlo in America. Gli artisti devono essere messi sotto pressione, sennò diventano noiosi. Qui la competizione ti obbliga a dare sempre il massimo, prepararti, crescere». 

E’ un problema di talento, di strutture, o di opportunità?  
«Un insieme di tutte queste cose. In Europa abbiamo i grandi geni che nascono dal nulla, ma poi ci manca la base di una industria strutturata per creare prodotti buoni in maniera costante. Il pubblico fatica a trovare film che ama davvero. Forse abbiamo meno talenti, meno sceneggiatori, e anche meno registi disposti a girare opere di alta qualità, ma commerciali». 

Non è una contraddizione in termini?  

«Da noi il termine commerciale è una parolaccia, ma un film non commerciale è un flop. E’ quello che dopo due settimane va fuori mercato e porta alla bancarotta. Questa cosa mi fa infuriare: sentire registi e attori italiani che non vogliono lavorare nei film commerciali. Una roba che non ha senso, negli Stati Uniti. Forse la poesia o la pittura si possono fare senza soldi, ma il cinema no. E non capisco perché un film non possa essere allo stesso tempo di qualità, e vendere al botteghino». 

E’ l’obiettivo che spera di centrare con “Quello che so dell’amore”?  
«Io ci sto provando, a cambiare le cose. In Italia ho girato film molto popolari, e alcuni hanno tentato di fare lo stesso. Ora mi pare che stiamo tornando nell’imbuto della commedia. Eppure il nostro grande cinema alto del passato è stato anche un cinema di successo commerciale. Spero che un giorno torneremo a capirlo».

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