Il 27 settembre 1976 non era giorno da scoop. Il Corriere della Sera titolava su un incontro governo-sindacati e lo sport era in prima pagina con una foto di Adriano Panatta in Coppa Davis. Quello che nessuno poteva ancora scrivere era l’arrivo di chi avrebbe cambiato la storia del calcio a Roma: Francesco Totti.
L’intervista è appena finita. Il direttore Luciano Fontana ha portato una copia, incorniciata, di quella prima pagina: «La notizia era che eri nato tu». Totti guarda e sorride: «Prima intervista da dirigente. Fa un po’ effetto. È diversa. Ma dopo 25 anni da calciatore ti devi abituare».
Cosa è cambiato?
«Tutto. La vita, la testa, il fisico. Ero abituato a fare sempre le stesse cose: sveglia presto, colazione, allenamento. Come una macchina. Adesso devo programmare la giornata. L’impatto non è stato semplice. Ho chiesto alla società se potevo ricaricare le batterie per un po’. Avevo voglia di dare un taglio, liberare la testa, godermi i miei figli. Me lo hanno concesso e li ringrazio, così ho potuto cominciare con il piede giusto il nuovo percorso. Sono rimasto nel calcio, che per me è la vita. È tutto».
Tutto per sempre? O mai dire mai?
«Il mio lavoro resterà sempre nel calcio. Ne sono convinto. Ho la fortuna di poter stare con la squadra, con l’allenatore e con i dirigenti. Divido le partite con loro. Vado sul pullman. Vado in ritiro. Lavoro a 360 gradi».
Cosa può dare, da dirigente, chi non ha mai studiato da dirigente?
«Sono stato calciatore e conosco tutte le dinamiche. So come trattare un giocatore. Dentro lo spogliatoio può starci davvero solo chi ne conosce le parole, gli sguardi, i momenti giusti. Ho questa fortuna rispetto ad altri dirigenti, ho vissuto le dinamiche dello spogliatoio. Ci vado ogni giorno, come prima. Solo che adesso non mi spoglio».
Quanto pesano una giacca e una cravatta?
«All’inizio parlavo da solo, come un matto: sono infortunato, sono squalificato, adesso rientro. Però adesso mi sono abituato».
Si soffre di più in tribuna o in panchina?
«In tribuna, perché in panchina speri sempre di poter entrare. In tribuna ascolti cose pazzesche. Tutti allenatori. Penso: chissà cosa dicevano quando giocavo io?».
Passo indietro: 28 maggio, l’addio al calcio che ha commosso mezzo mondo...
«Così non me lo aspettavo nemmeno io. Qualcosa oltre il calcio. È stato emozionante per il mio sentimento verso di loro e il loro sentimento verso di me. Non ero Totti o il capitano della Roma, ero il fratello di tutti. Le facce della gente, piene d’amore, erano per me. Dirò una cosa che può sembrare brutta, perché la Roma conta più di tutto e l’ho sempre messa davanti a me: di quel risultato, ho capito, non importava tanto alla gente».
Lo stadio nuovo è in partenza. Perché non giocarci la partita di inaugurazione?
«Ormai basta, se no divento pesante. Ma lo stadio di proprietà è fondamentale. Migliorerebbe anche il comportamento dei tifosi. Ora parcheggi a tre chilometri di distanza e devi passare dieci tornelli. Così ti passa la voglia».
Roma, solo Roma, sempre Roma?
«La prima volta potevo andare al Real Madrid, perché non avrei vestito mai un’altra maglia italiana. Il cuore e la testa mi hanno fatto scegliere e non mi sono mai pentito».
C’è una seconda volta?
«Gli ultimi mesi con Spalletti sono stati complicati. Avevamo un bel rapporto, prima che se ne andasse nel 2009. Quando è tornato, mi sono messo a disposizione. Avrei preferito giocare di più, visto che era l’ultimo anno, però non ho nessun rimprovero da fargli. Ho accettato dignitosamente le sue decisioni. Mi è dispiaciuto, ma so che le scelte le fa l’allenatore e poi, semmai, ne paga le conseguenze. Ho ricevuto proposte per andare negli Emirati o negli Stati Uniti. Mi avrebbero ricoperto di soldi, ma avrei rovinato 25 anni d’amore. Poteva essere un’esperienza, non ero ben visto dall’allenatore in quel contesto. Però anche questa volta ho scelto la Roma».
I rapporti con Pallotta?
«All’inizio titubanti, ma ci siamo chiariti. Lui vedeva bianco e io rosso. Poi abbiamo trovato un colore in comune per il bene dalla Roma».
Quando ha capito che sarebbe diventato calciatore?
«A 16 anni, quando ho firmato il primo contratto da professionista. Ho capito che era diventato un lavoro serio».
Suo figlio Cristian ha 12 anni e gioca. Che padre calcistico è Francesco Totti?
«Un padre modello. Gli insegno quello che mi hanno insegnato i miei genitori: rispetto, educazione. Certo, ha questo cognome pesante. Gioca e la gente spera che io vada a vederlo. Lo lascio fare, non gli dico niente. Tra 3 o 4 anni vedrò di che stoffa è fatto veramente».
Saprebbe dirgli che non è un campione come il padre?
«Meglio la verità piuttosto che una bugia che può metterlo in difficoltà in futuro».
Chi sta più dietro ai figli, lei o Ilary?
«Tutti e due. Anche troppo. Non li lasciamo sempre alle tate. Li portiamo a fare sport tutti i giorni».
Chi ha il possesso del telecomando in casa?
«Chanel per i cartoni animati. Se devo guardare la partita vado in un’altra stanza perché alla fine ha sempre ragione la donna, anche se in casa i pantaloni li porta l’uomo. In alcune case, almeno. Però, per non discutere…».
Scelte in tv?
«Gomorra, Suburra, Narcos. La tv ormai è questa. Ma chi mi emoziona davvero è Roger Federer. Lo guardo, lo studio, a volte penso che mi somiglia. Che talento! Quando gioca manco suda».
Ilary le conta ancora i sette rigatoni?
«Mi alleno tutti i giorni, ci tengo, mi serve anche per sfogarmi un po’. Se mi lascio andare divento 300 chili, al massimo adesso ne ho presi 2. Comunque non sono un mangione. La cucina romana, per esempio, non mi piace per niente. Carbonara, amatriciana, pajata: per me, zero».
Italia-Svezia l’ha vista in tv?
«Non pensavo che succedesse questo dramma calcistico. A giugno accenderò la tv e non vedrò l’Italia, è surreale».
Con lei in panchina Insigne sarebbe entrato?
«Con me giocava dal primo minuto, è uno dei pochi che poteva risolvere la partita».
Federcalcio: da chi si dovrebbe ripartire?
«Da Damiano Tommasi. Primo perché è amico mio e secondo perché è competente. Una bella figura: giovane, trasparente, pulito. Se vai all’estero con lui fai bella figura».
Facciamo anche il c.t.?
«A questo punto, Montella. Rifaccio la Roma dello scudetto».
Il suo amico Buffon deve continuare a giocare o smettere?
«A 39 anni puoi giocare meglio che a 22, è questione di testa. Ma in Italia ragioniamo con la carta d’identità. Buffon, quando para, non ha 39 anni».
Pallone d’oro?
«Messi o Cristiano Ronaldo. Però preferisco Messi».
Il rimpianto calcistico?
«Non aver giocato con Ronaldo, quello dell’Inter. Il mio sogno, ma anche il suo. Ha segnato tanto, ma con me segnava ancora di più».
La Var le piace?
«Sì, ma bisogna vedere come si usa. Chi decide?».
A lei sarebbe stato fischiato qualche rigore in più?
«Sì, ma avrebbero visto anche qualche cazzata in più che ho fatto».
Lo sa che il suo video più cliccato è il calcio a Balotelli?
«Lì non c’era bisogno della Var. Era una cosa accumulata da anni, per quello che diceva sui romani. Dai e dai… Comunque è stato brutto quello che ho fatto».
Balotelli si è perso...
«Arrivare è facile, mantenersi difficile. Senza testa resti al massimo bravo giocatore. La famiglia mi ha insegnato i valori e il rispetto nello sport e nella vita. Senza famiglia non vai da nessuna parte».
Cosa è successo a De Rossi?
«Cose istintive, che purtroppo in campo succedono. Dopo dici: è impossibile che abbia fatto una cosa così. Lui è il più avvilito di tutti, adesso bisogna stargli vicino e basta».
Come va con Di Francesco?
«Con lui sono tutti contenti, c’è un gruppo solido. È aperto al dialogo, non ha peli sulla lingua. È tosto, è un abruzzese. Dice quello che pensa».
Farà mai l’allenatore?
«Diciamo che adesso non è una mia priorità».
Quale è il difetto che detesta di più?
«L’invidia e la falsità di chi ti parla dietro alle spalle».
Chi vince lo scudetto?
«Ci sono tre quattro squadre sullo stesso livello, ma qualcosa in più ce l’ha sempre la Juve. Il Napoli? È la squadra più bella da vedere, può vincere lo scudetto se non avrà troppi infortuni».
Domani c’è Napoli-Juve: per chi farà il tifo?
«Per un pari, così prendiamo punti a tutte e due».
E se lo scudetto non andasse alla Roma?
«Preferisco il Napoli, così per cambiare. A Torino si saranno stancati di festeggiare. A Napoli ci camperanno per altri cent’anni pure loro. Mi piacerebbe uno scudetto al Sud».
E uno scudetto all’Inter?
«Eh, no, all’Inter no».
Spalletti, per i suoi 40 anni, le regalò il modellino della DeLorean di «Ritorno al futuro». Se potesse, preferirebbe andare avanti nel tempo o tornare indietro?
«Tornerei indietro. Dal 2000 al 2010 stavo al top, anni fantastici. Me ne basterebbe uno solo».
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