L'unica certezza nel futuro sportivo di Alessandro Del Piero - a cui Vanity Fair dedica la copertina del numero in edicola il 18 aprile - è che dopo il 30 giugno, data di scadenza del suo contratto, lui continuerà a giocare. S’intitola Giochiamo ancora anche il suo libro, un diario intimo che uscirà in libreria il 24 aprile e che Vanity Fair ha letto in anteprima.
Il suo libro inizia con la domanda di un tema delle elementari: «Cosa farò da grande?». E ancora oggi, a 37 anni, continuano a chiederglielo.
«Allora non ebbi il coraggio di scrivere: il calciatore. Mi vergognavo del mio sogno, perché non mi sembrava un lavoro vero. Dissi che sarei stato elettricista come mio padre Gino, oppure camionista, o cuoco. Oggi, a quella domanda, posso rispondere che le mie partite non sono finite».
Ha imparato a esserne orgoglioso.
«Sì, perché – come ho scritto nel libro – io non sono quello che pensano di me un allenatore o un presidente, io sono quello che dimostro di essere, sono quello che io stesso penso di me. Per primo saprò quando dovrò smettere, ma non ancora: la mia passione per il gioco è troppo viva».
Ha scritto di non aver pianto, come avrebbe voluto, per la morte di suo padre.
«Ho il rammarico che non abbia conosciuto i miei figli, il dispiacere di non avergli detto “ti voglio bene” qualche volta di più. La sua morte è il dolore più grande della mia vita».
È cresciuto in una famiglia «che guardava alle mille lire».
«Non eravamo poveri, ma dovevamo fare economia. Il senso della parsimonia mi è rimasto.(...) Oggi sono uno di quei bambini che può comprarsi tutti i giochi che vuole, ma tanto il suo preferito resta il pallone».
Dica la verità: avrebbe preferito finire la carriera alla Juve.
«Era quello che sognavo. Questi vent’anni sono stati ricchi di emozioni, con momenti straordinari e a volte duri: ho provato il brivido di scrivere quasi tutti i record bianconeri. Ormai però le cose sono cambiate».
Saranno cambiate, ma ultimamente ha fatto grandi gol, il pubblico la osanna. Come definirebbe questa ultima stagione?
«La più complicata della mia vita, perché mi ha messo di fronte a una realtà che non avevo mai conosciuto: la realtà di chi gioca poco o niente. Nessuno pensa di meritare l’esclusione, e per quanto io abbia sempre pensato che se gioca un altro vuol dire che se lo merita, questo non significa rinunciare a lottare per conquistare quel posto».
Come ci è rimasto quando Andrea Agnelli, già in ottobre, ha annunciato che lei non avrebbe fatto parte della Juventus nel 2013?
«Mi ha sorpreso. Ma un capitano non deve mai dimenticare i suoi doveri e quello che rappresenta. La Juventus è impegnata al massimo per vincere campionato e Coppa Italia. Non abbiamo bisogno di polemiche, che del resto non hanno mai fatto parte della mia carriera».
Ma davvero sarà il suo ultimo anno in bianconero?
«Dal 30 giugno sono senza contratto. Non so immaginare il mio futuro, è un cambiamento enorme e un po’ mi spaventa, perché sarebbe come andare via di casa una seconda volta. Ma lo vivo come i videogiochi che mi piacevano da ragazzino: un nuovo livello da superare».
Conosceva Piermario Morosini?
«Davanti a una morte così assurda provo un senso di sgomento: la storia personale di Piermario rende questa tragedia ancora più inaccettabile, ci fa riflettere su quanto relativi siano i problemi di tutti i giorni, e quali realtà di vera sofferenza ci circondino. Non lo conoscevo ma tutti lo ricordano come un giovane buono, capace di superare le difficoltà della vita anche attraverso il calcio. Lo sport che, per tutti noi che ne viviamo, dovrebbe essere sempre e solo gioia condivisa in campo».
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